Final Fantasy VII Rebirth ha tanto cuore, a volte quasi troppo
Un classico nuovamente immaginato con un destino da compiere
Final Fantasy è una serie che è in giro da praticamente quando esistono i videogiochi. In un modo o nell’altro quasi tutti, se anche non ci hanno giocato, ci si sono imbattuti: magari è stato un capitolo che si è provato da un amico, un personaggio visto in un altro gioco o su una rivista, un’immagine promozionale particolarmente efficace che ha superato la bolla degli appassionati. Se anche non siete degli impallinati, Final Fantasy sapete cos’è. E più è limitata la vostra conoscenza della serie, più è facile che il poco che conosciate arrivi da Final Fantasy VII.
Di cosa si sta parlando
Final Fantasy VII Rebirth è il secondo capitolo della serie remake di Final Fantasy VII, il capitolo più famoso della serie uscito su PlayStation nel 1997. Fu sviluppato da SquareSoft (diventata poi Square Enix) in un contesto al limite del pionieristico (ben raccontato dal libro di Matt Leone 500 Years Later) e fu capace, grazie a idee innovative, una aggressiva campagna di marketing e la scelta della piattaforma a rendere popolare nel giro di pochissimo tempo il genere dei giochi di ruolo di tipo giapponese, che lei stessa aveva contribuito a creare e codificare. Il suo remake fu annunciato nel 2015 dopo anni di speculazioni e il primo capitolo, Final Fantasy VII Remake, uscì nel 2020 su PlayStation 4. La nuova serie, che sarà composta da tre capitoli, ripercorre, almeno all’inizio, la storia dell’originale con una certa aderenza, ma mano a mano che prosegue segue una strada sua che cambia i contorni della narrazione, rendendola più imprevedibile.
Se dal punto di vista narrativo il team di sviluppo cambia pur senza rivoluzionare, da quello del gameplay ci va giù molto più dritto, creando un sistema solido e perfetto per un gioco a metà tra passato e futuro. Final Fantasy VII Rebirth è un gioco di ruolo con un sistema di combattimento fresco e dinamico, rifatto totalmente da zero e capace di tenere insieme l’ingombrante eredità dell’originale (a turni, o quasi) ma al contempo risultare efficace e divertente anche nel 2024. Ci si può approcciare come a un gioco d’azione, utilizzando poche abilità ma con estrema rapidità o sfruttare una versione moderna della pausa tattica, che rallenta enormemente l’azione e permette di scegliere quali azioni far compiere a quale personaggio.
Il mondo in cui ci si muove è diviso in diverse mappe molto grandi, entro le quali sono presenti missioni e attività secondarie non tanto diverse da quelle che si possono incontrare in qualsiasi open world: informazioni da recuperare, torri da scalare e antichi vasi da salvare. In generale la mole di contenuti è impressionante, a volte soverchiante: ogni nuova area propone decine di attività secondarie e NPC con cui interagire che se da una spingono il giocatore a perdersi tra la giungla di Gongaga o il deserto di Corel, dall’altra lo allontanano troppo dal cuore della vicenda: lo scontro tra Cloud, il protagonista, e Sephirot, uno dei “cattivi” più riconoscibili del mondo dei videogiochi.
Come se ne sta parlando
Bene, anzi, benissimo. E la cosa non è affatto scontata vista la difficoltà che spesso hanno la critica e l’utenza a relazionarsi con la rivisitazione di un gioco del passato così importante da essere diventato un simbolo. Quella che generalmente viene più apprezzata è l’ambizione della produzione, a tratti sconfinata: alcune aree che nell’originale erano appena abbozzate diventano ora giungle lussureggianti o cittadine in fermento, brevi linee di dialoghi o riferimenti più o meno vaghi ad alcuni personaggi si trasformano in storie e missioni secondarie che contribuiscono a rendere la caratterizzazione dei personaggi più credibile e in generale il mondo molto più vivo.
Ogni singolo aspetto del gioco originale è stato rivisto e ampliato, a volte con poco senso della misura: la presenza di alcuni mini-giochi, una delle cifre distintive di Final Fantasy VII, è quasi invadente, nonostante questi (con in testa Queen’s Blood, il gioco di carte) siano generalmente divertenti e realizzati con grande cura. Il desiderio di compiacere i fan di vecchia data con continui riferimenti e alzate di gomito al gioco che fu è a volte fuori misura, cosa che rende il ritmo dell’avventura altalenante. Anche i toni del racconto a volte sono fuori fuoco, e passano troppo e troppo spesso dal deprimente al leggero nel giro di un pochissimi secondi, senza dare tempo alla storia di sedimentare e alle emozioni di essere elaborate.
Perché se ne sta parlando
Final Fantasy VII ebbe un impatto enorme sia sul mondo dei videogiochi che su almeno un paio di generazioni di videogiocatori. L’idea stessa di andare a rimaneggiare quello che negli anni è diventato una specie di totem è notevole, e testimonia un grande coraggio da parte dello sviluppatore. Yoshinori Kitase, che il gioco originale lo ha diretto, da questo punto di vista ha fatto un lavoro eccellente creando una nuova trilogia che riesce a essere estremamente moderna pur non sconfessando mai il materiale originale.
E poi c’è la questione legata a Aerith e al suo arco narrativo. La storia di Final Fantasy VII Rebirth si chiude proprio con quel momento che la generazione di giocatori sopra menzionata l’ha segnata, e che inevitabilmente catalizzerà gran parte della chiacchiera relativa al gioco nonostante Final Fantasy VII sia sempre stato molto più della somma dei suo snodi di trama, così come lo sono Remake e Rebirth.
Vale il nostro tempo?
Partiamo con il dire che l’obiettivo di Final Fantasy VII Rebirth è (ed è sempre stato) più permettere a chi già aveva giocato all’originale di farsi un secondo giro di giostra che quello di allargare il suo pubblico. E in questo il lavoro di Square Enix è eccezionale. Il mondo di gioco è sconfinato e gustoso da esplorare (per quanto alcune scelte di design siano meno riuscite di altre), e combattere non è mai, mai, noioso. Se quello che chiedete al gioco è questo, un viaggio nel passato con il filtro nostalgia a tuono, allora non dubitatene nemmeno un secondo.
Se siete dei neofiti del gioco e della serie invece, e avete magari poca familiarità con la grammatica del genere o con la natura estremamente giapponese della produzione, allora potreste incontrare qualche resistenza, o difficoltà di ambientamento. C’è poi ancora, e non è secondaria, la questione della rappresentazione femminile, che non sempre è adeguata alla più attenta sensibilità moderna.
Nonostante tutto però, per ogni momento in cui ho storto un po’ il naso ce n’è stato un altro in cui la musica giusta al momento giusto mi ha entusiasmato o commosso. Per ogni volta che mi sono sentito stanco per un mini-gioco di troppo c’è stata una scena che mi ha strappato un sorriso o reso gli occhi lucidi. Per ogni volta che ho visto una specie di cane rosso con la coda infuocata cavalcare un pollo gigante c’è stato uno sguardo carico di tenerezza con il personaggio per cui da ragazzo ebbi una cotta.
È questo il vantaggio e lo svantaggio dell’andare a riprendere giochi così importanti e cui molte persone sono emotivamente legate: il loro farcela o meno diventa una questione quasi esclusivamente personale. Con me, ce l’ha fatta.
Final Fantasy VII Rebirth è disponibile da oggi (29 febbraio) per PlayStation 5.